CORPOREITÀ E SENTIMENTI NEI VERSI DI NICOLA FOTI | APPUNTI SU I COLORI NELLA NOTTE
Di Cinzia Baldazzi
Quali saranno le sfumature notturne della silloge I colori nella notte i cui versi procedono «in un frullare d’ali», con «volti e cose / Che mai più rivedrò»? Di certo, aveva ragione Giuseppe Ungaretti: l’amore è una finestra illuminata nella notte buia, il vero amore «una quiete accesa». La letteratura del Novecento ne ha accese di luci, scavando al contempo voragini di immensa oscurità. E ora, alle soglie del terzo millennio, afferma Nicola Foti:
Non è passato invano, amore mio Il tempo di noi eterni girasoli
Infatti:
Di nuovo i girasoli ci salutan Ebbri di luce, folli, esagerati
Ma adesso, purtroppo, può accadere – ad esempio nella poesia che dà il titolo al libro – di trovarsi innanzi alle labbra dell’amata, non più «dimora», bensì «pietra tombale»:
Qualche fiore marcito Di sbiadito amaranto Lunga sarà la notte Senza canto
In questa vita, pertanto, in «un frullìo d’ali / Senza mète e confini», diviene urgente per Nicola Foti il dilemma dell’itinerario attraverso cui affrontare l’organizzazione capillare e sociale, i suoi schemi morti: il poeta sembra risolverlo appellandosi alla passione, all’affetto, circondato da un’adesione ingenua, a volte ingorda:
Nel temprarmi alla vita Mi scoprii Ingordo d’amore
Una disposizione naturale, tipica dell’esistenza nell’immediatezza totale, integra, transitata in un linguaggio simbolico energico, profondo, altamente polisemico. La parole diventa noi stessi, e rinvia idealmente all’interrogativo formulato dal semiotico statunitense Charles Sanders Peirce:
Che cosa distingue, allora, un uomo dalla parola? Perché è indiscutibile che vi è una distinzione: le qualità materiali, le forze che costituiscono la pura applicazione denotativa, e il significato di quel segno che è l’uomo, sono fattori oltremodo complicati in confronto a quelli della parola.
La risposta fornita da I colori nella notte suggerisce un quadro non conciliante:
Maschera vuota Dentro ai fiori nascondi Il verminaio dell’ipocrisia Lo specchio non riflette più il volto Dove finì l’incanto di parole Che di fango macchiasti
In un sistema minaccioso, chiuso, compatto, sotto un «cielo impietoso», il personale e privato dell’autore contamina il linguaggio: i «giorni neri» sono «come ondate d’inchiostro», ma la donna dipingeva – di nuovo – «incanti di parole». Traspare, allora, come un’incrinatura della negatività, e nasce, moltiplicato, il desiderio:
Ti ho desiderata, ti ho cantata Ti ho maledetta, invocata Nei silenzi infiniti Nei simulati amplessi Dove parola si faceva carne
Le poesie di Nicola Foti allineano una discorsività franta e spezzata, ma internamente organica e ininterrotta: è il segno-segnale di una lotta che si combatte in un deserto assurdo, nell’aridità di un insieme vuoto di certezze o significati attendibili, in un varco del microcosmo dove l’esistente non può essere conosciuto bensì soltanto vissuto, interpellato, eliminando la linea di separazione fra il “dentro” e il “fuori”, l’Io attivo e la cosalità. L’Ego del nostro poeta devolve per intero la coscienza al vissuto, e i suoi messaggi rimangono sospesi, pronti a essere confermati o smentiti.
Quindi, in un input di orgoglio umano, sincero:
Sorge l’aurora Di porpora e di rosa Ha la cintura
Del resto, Blaise Pascal ricordava:
Dio ha messo nel mondo abbastanza luce per chi vuole credere, ma ha anche lasciato abbastanza ombre per chi non vuole credere.
Tra le pagine de I colori nella notte prende corpo un’articolata riflessione sul significato dell’esistenza, sul rapporto sottile e indefinito tra l’amore, il tempo e l’eterno, fra il concreto e l’invisibile, il caso e la necessità. Così come quando il mare, con le sue onde perenni che battono la riva, suggerisce le risposte:
Mi parli solo tu, mare Porti in te il messaggio Di parole mai pronunciate Nel frastuono di onde perenni Non hai voce, eppure Nei tuoi sussurri e ruggiti Chiaro si fa il sentire Di questa mia esistenza Questo incessante andare e ritornare Questo continuo vagare.
Tuttavia, in tale affascinante dimensione linguistico-simbolica – convincente nel suo permanere aleatoria, nel rimanere incerta nelle risposte assolute – la ricerca da parte di Foti dell’ultima tappa ontologica dell’esistere non ha modo di compiersi: volendo andare sempre oltre, si interrompe e arretra inquieta ogni volta, prima di avvicinarsi alla conclusione. Il gioco dei contrari, annunciato persino nel titolo, confonde sperimentalmente i confini nell’intervallo di scambio esatto e assiduo tra corporeità e sentimenti, nel bilanciamento tra peso e leggerezza, nel confronto tra il realismo delle cose e il nulla circostante. I quesiti totalitari sostano inespressi, impliciti, nell’alterno apparire di presenze e immagini còlte nello sfumare in un’aura astratta, indeterminata.
Leggiamo, infine, ne I colori nella notte:
Cercavi libertà Da me, cercasti Ma non ero padrone delle gabbie E vissi prigioniero del silenzio Io mai più seppi Mai più domandai
Non condivido la resa incondizionata, preferisco evocare un’altra finissima trama di analogie capace di ipotizzare il limite della conoscenza al di là dell’immediatamente verificabile. Sono d’accordo con Walter Benjamin – e forse lo sarà anche Nicola Foti – quando mette in guardia dal vero pericolo: «Nella vita si impara sempre meglio a evitare».
Nicola Foti I colori nella notte Proverso Ediciones, 2019, pp. 84 Impaginazione Inma J. Ferrero in copertina I colori nella notte di Massimo Chioccia e Olga Tsarkova (2001) Design della copertina Inma J. Ferrero