LA POESIA DEL CALCIO (O IL CALCIO COME POESIA)? (PRIMA PARTE)
Il Giaciglio Pensante
Di: Nicola Foti
In questo periodo di blocco totale delle attività sportive dovuto alla pandemia da Nuovo Coronavirus (COVID-19), molti sentono, da ormai diverse settimane, la mancanza dello sport più popolare del mondo: il calcio, ovvero il football (o soccer, negli USA). Nell’incertezza che i campionati di calcio nei cinque Continenti possano riprendere regolarmente, rinviato il Campionato Europeo per Nazioni che si sarebbe dovuto svolgere quest’anno in varie città del Vecchio Continente dal mese di giugno, rinviate anche le gare per i titoli continentali ed intercontinentali, per alcuni di noi, ragazzi degli anni ’50, la mente, più o meno privata di questo grande giocattolo mondiale, corre agli anni passati, quando il gioco del calcio era un fenomeno ancora nella sostanza genuino, non come ormai da anni drogato ed appesantito dai tantissimi soldi che gli girano intorno, con gli sponsors, i diritti televisivi, lo sfruttamento pubblicitario dei marchi e tutto il merchandising che ne consegue, le scommesse, i ritmi forsennati degli incontri durante tutta la settimana, e così via.
I giocatori di un tempo (almeno fino agli anni ’80), quelli che sarebbero diventati dei futuri campioni, così come gli onesti pedatori di lungo corso e le meteore, bruciatesi nel giro di pochi anni, nascevano prevalentemente come ragazzi semplici, figli del dopoguerra o poco prima, provenienti molto spesso della provincia, o delle periferie delle grandi città. Figli in gran parte delle classi sociali meno agiate, se non addirittura proletarie, di famiglie numerose con pochi soldi, e la necessità di crescere in fretta. Il loro primo palcoscenico era l’oratorio, e quei dannati campetti spelacchiati o in terra battuta contigui alla parrocchia, col prete spesso a fare da arbitro; talvolta il campetto era quello ancora più misero di un convitto per orfani, o, tout court, la strada, nella peggiore delle ipotesi di una borgata, di un barrio fatiscente, o di una favela. La palla talvolta era di stracci, o di durissimo cuoio; i piedi calzavano, nella migliore delle ipotesi, scarpette consumate dai fratelli maggiori, o dai padri; famiglie di operai e di casalinghe, dove, lasciata spesso precocemente la scuola, il calcio era il divertimento dopo svariati lavoretti di garzone per pochi centesimi…un bel giorno, magari «scoperti» da talentscouts improvvisati, ma dal fiuto speciale; personaggi che offrivano a questi ragazzi la possibilità di fare dei provini per squadre di provincia, magari coltivando il sogno di finire in qualche club prestigioso, come – in Italia, la Juventus, l’Internazionale, il Milan…il Grande Torino che si schiantò, nel maggio del 1949, a causa di una nebbia fittissima, contro la Basilica di Superga, al ritorno di una partita amichevole giocata a Lisbona.
Beninteso, ogni Nazione di grande tradizione calcistica, che sia europea o sudamericana, ha le bacheche piene di trofei nazionali ed internazionali, e, di certo, non mancano, al giorno d’oggi, grandi campioni indiscussi, che mi parrebbe finanche pleonastico nominare, mentre rincorro con la mente le gesta sportive di Pelè, di Maradona, di Puskas, di Di Stefano, di Mazzola, di Sivori, di Riva….e tanti altri.
Noi, gente di sessant’anni o più, abbiamo ancora nel cuore questi, e tanti altri calciatori; siamo ancora rimasti innamorati di «quel» calcio, quello che, da ragazzi, ascoltavamo, frementi ed emozionati, dalle radioline a transistors incollate all’orecchio…il rito domenicale della partita si ripeteva, invariabilmente, dopo il pranzo, quasi come una Messa laica…il pallone era un dio, ed i calciatori i suoi apostoli.
I calciatori di una volta non erano imbellettati, rasati, lucidati, tatuati, palestrati all’inverosimile come oggi: spesso erano ragazzi un po’ goffi, con certe facce precocemente invecchiate, coi denti un po’ così…le maglie erano semplici, a volte un po’ sformate, con i numeri dall’1 all’11 rigorosamente cuciti a mano, senza nomi, senza pubblicità invadenti, fastidiose, ruffiane; gli scarpini non avevano marchi globalizzati, e la palla, nella sua massima evoluzione, era invariabilmente bianca con esagoni bianchi e pentagoni neri; solo nelle partite con i campi innevati la palla talvolta sfolgorava di un arancione acceso.
Da qui, l’idea nostalgica di ritrovare quella «poesia» del calcio, che, purtroppo, mai più esisterà.
Oggi il calcio è un fenomeno più commerciale che sportivo, ed è inutile illudersi…indietro non si ritornerà…sebbene non sia detto che questa situazione attuale di sosta forzata, imprevedibile ed impensabile solo tre-quattro mesi fa, con ricadute negative anche in questo settore, non possa recuperare, almeno in parte, le ragioni di uno sport magari meno ricco, meno patinato, dove non sia solo il business a dettare tempi e modi di questo gioco che è anche lo spettacolo più seguito del mondo. Succederà? Non succederà? Lo vedremo nei prossimi mesi.
Nel frattempo, io, nostalgico di «quel» calcio di tanti anni fa, non posso non ricordare, come tutti gli appassionati italiani in questi giorni, la storica vittoria del titolo italiano di calcio (lo Scudetto della Serie A), da parte della squadra del Cagliari, capoluogo della Regione Sardegna, avvenuta 50 anni fa, nella mitica stagione 1969-70, quella nella quale i sardi dominarono, guidati da un allenatore anti-divo come Manlio Scopigno, detto «il Filosofo», e condotta da formidabili calciatori come Albertosi, Nené, Cera, Domenghini, Gori, Greatti.
Ma soprattutto dal grande, immenso Gigi Riva, il «Rombo di Tuono», che, col suo sinistro di terrificante potenza, e con i suoi goals, portò non solo una squadra, ma un’intera città e una intera regione, per giunta del Sud Italia, al trionfo….mai più ripetuto, e che forse mai più si ripeterà.
Gigi Riva, classe 1944, lombardo di nascita, capitato quasi per caso in Sardegna, un’ infanzia umile e difficile, divenne l’Eroe assoluto di quella squadra, quella – tanto per capirci – che costituì l’ossatura della Nazionale italiana dei Mondiali di Messico ’70, quella di Italia-Germania Ovest 4-3, con altri campioni come Mazzola, Rivera, Boninsegna, considerata ancora oggi la partita di calcio più bella del ventesimo secolo…purtroppo gli azzurri furono sconfitti poi dal Brasile in finale, ma l’eco di quella vittoria fa e farà ancora piangere i teutonici…almeno per altri 50 anni!
Gigi Riva, monumento vivente ancora oggi, non si lasciò tentare dalle lusinghe delle squadre di Milano, di Torino o di Roma, e rimase fedele alla squadra ed all’isola che lo consacrò Campione per sempre…solo un bruttissimo infortunio in una partita della Nazionale Italiana contro l’Austria, compromise una carriera che lo avrebbe sicuramente messo tra i primi cinque o sei calciatori più grandi di tutti i tempi….
Ma il calcio come «poesia», nei tempi più o meno passati, è stato anche poesia sul calcio…e, questo, è l’obiettivo di questo articolo, che proseguirà, nella sua seconda parte, con una sorpresa: cinque poesie di Umberto Saba, grande poeta triestino, dedicate al football.
Il calcio non visto solo come mero atto sportivo ed agonistico, ma come metafora della vita, con le sue vittorie, le sue sconfitte, dove i calciatori, ma anche gli arbitri, gli allenatori, gli spettatori assumono contorni quasi mitici, degni di Omero e di Virgilio, degni dei lirici greci e latini, ma anche di chi, in tempi più recenti, si è dedicato alla materia calcistica nella poesia, nella narrativa, nel cinema e nelle arti figurative…materia già consegnata alla Classicità.