LA POESIA DEL CALCIO (O IL CALCIO COME POESIA)? (SECONDA PARTE)
Il Giaciglio Pensante
Di: Nicola Foti
Il calcio, lo sport più popolare del mondo, sta continuando a vivere, come del resto tantissime altre attività umane, un momento di stasi in quasi tutto il pianeta, a causa della nota pandemia virale. Solo in alcuni Paesi si è ritornati a svolgere i campionati regolari, pur tra molte difficoltà e limitazioni; nella maggior parte dei restanti Paesi si sta cercando di ricominciare, ma la strada da percorrere non è, e non sarà affatto facile. In attesa che l’attività riprenda, moltissimi nel mondo ripercorrono la Storia, passata e recente, di questo sport; questa passione, diventata sentimento popolare, nonostante le sue contraddizioni, gli aspetti spesso non positivi ( i troppi soldi che girano, la violenza dentro e fuori gli stadi, l’eccesso di protagonismo), non possono far dimenticare la bellezza del gesto atletico, l’ammirazione per i fuoriclasse, la metafora della vita (vincere o perdere, difesa ed attacco, la gioia, il trionfo della vittoria, l’amarezza e il rimpianto per la sconfitta).
Nel corso degli ultimi secoli (due in particolare), poeti, artisti, narratori, cineasti, giornalisti hanno celebrato il calcio, soprattutto quello dei tempi mitici, quando i campi fangosi, palloni di cuoio pesante, erano le arene ideali dove un tempo si battagliavano gladiatori e cavalieri.
Uno dei primissimi collegamenti tra letteratura e calcio (in senso lato, gioco del pallone), riguarda Giacomo Leopardi, uno dei massimi Poeti italiani, il quale compose, tra i suoi Canti, la lirica «Ad un vincitore nel pallone» (1821). Tale poesia è dedicata ad un campione dell’epoca, tale Carlo Didimi, conte, futuro patriota mazziniano, uno dei più famosi giocatori di pallone col bracciale, pratica sportiva diffusissima nel 18° e 19° secolo, praticata negli sferisteri, veri teatri sportivi, dei quali il più famoso, quello di Macerata, di stile neoclassico, è ancora molto impiegato nei concerti e nelle rappresentazioni di opere liriche. Tale gioco, in Italia, cedette definitivamente il passo, e la relativa popolarità, al calcio, verso il 1920 (il football, italianizzato calcio, che i marinai inglesi avevano introdotto già nella seconda metà del 19 ° secolo nel Bel Paese).
Al tempo dei primi Canti (o Canzoni), Leopardi credeva al riscatto italico (l’Italia, all’epoca, era ancora suddivisa in molti stati, dominati da dinastie austriache, francesi, spagnole, mentre la patria di Giacomo Leopardi, Recanati, si trovava nello Stato Pontificio).
La metafora dello sport è utilizzata dal Poeta per esortare gli Italiani a svegliarsi dal proprio ozio, per onorare la Patria, così come avevano fatto gli eroi della Classicità.
A UN VINCITORE NEL PALLONE
Giacomo Leopardi
Di gloria il viso e la gioconda voce,
Garzon bennato, apprendi,
E quanto al femminile ozio sovrasti
La sudata virtude. Attendi attendi,
Magnanimo campion (s’alla veloce
Piena degli anni il tuo valor contrasti
La spoglia di tuo nome), attendi e il core
Movi ad alto desio. Te l’echeggiante
Arena e il circo, e te fremendo appella
Ai fatti illustri il popolar favore;
Te rigoglioso dell’età novella
Oggi la patria cara
Gli antichi esempi a rinnovar prepara.
Del barbarico sangue in Maratona
Non colorò la destra
Quei che gli atleti ignudi e il campo eleo,
Che stupido mirò l’ardua palestra,
Né la palma beata e la corona
D’emula brama il punse. E nell’Alfeo
Forse le chiome polverose e i fianchi
Delle cavalle vincitrici asterse
Tal che le greche insegne e il greco acciaro
Guidò de’ Medi fuggitivi e stanchi
Nelle pallide torme; onde sonaro
Di sconsolato grido
L’alto sen dell’Eufrate e il servo lido.
Vano dirai quel che disserra e scote
Della virtù nativa
Le riposte faville? e che del fioco
Spirto vital negli egri petti avviva
Il caduco fervor? Le meste rote
Da poi che Febo instiga, altro che gioco
Son l’opre de’ mortali? ed è men vano
Della menzogna il vero? A noi di lieti
Inganni e di felici ombre soccorse
Natura stessa: e là dove l’insano
Costume ai forti errori esca non porse,
Negli ozi oscuri e nudi
Mutò la gente i gloriosi studi.
Tempo forse verrà ch’alle ruine
Delle italiche moli
Insultino gli armenti, e che l’aratro
Sentano i sette colli; e pochi Soli
Forse fien volti, e le città latine
Abiterà la cauta volpe, e l’atro
Bosco mormorerà fra le alte mura;
Se la funesta delle patrie cose
Obblivion dalle perverse menti
Non isgombrano i fati, e la matura
Clade non torce dalle abbiette genti
Il ciel fatto cortese
Dal rimembrar delle passate imprese.
Alla patria infelice, o buon garzone,
Sopravviver ti doglia.
Chiaro per lei stato saresti allora
Che del serto fulgea, di ch’ella è spoglia,
Nostra colpa e fatal. Passò stagione;
Che nullo di tal madre oggi s’onora:
Ma per te stesso al polo ergi la mente.
Nostra vita a che val? solo a spregiarla:
Beata allor che ne’ perigli avvolta,
Se stessa obblia, nè delle putri e lente
Ore il danno misura e il flutto ascolta;
Beata allor che il piede
Spinto al varco leteo, più grata riede.
Umberto Saba (Trieste, 1883-Gorizia 1957) è stato uno dei più importanti poeti italiani del Novecento. Molte delle sue opere letterarie, soprattutto poetiche, hanno attraversato il periodo tra le due guerre mondiali, che Saba, di famiglia ebrea, raccolse in massima parte nel Canzoniere, una delle più importanti opere letterarie di quel periodo.
Rimandando ad occasione più opportuna la sua storia letteraria ed umana completa, rimanendo nel tema del calcio, cinque sono le poesie che Saba scrisse su di esso, inserite nella sezione del Canzoniere intitolata Parole (1933-34).
Umberto Saba non era un appassionato di calcio; queste famose poesie nascono da un biglietto donato da un amico, che, non potendo recarsi a un Triestina-Ambrosiana (quest’ultima squadra la più favorita), «costrinse» il Poeta a recarsi allo stadio, complice anche una bella giornata di sole, e l’entusiasmo dei familiari.
L’esperienza di quella giornata fu memorabile per Saba, sebbene la partita si concluse sullo zero a zero («nessuna offesa varcava la porta»). Il Poeta si recò successivamente a una partita infrasettimanale col Padova; questa squadra, partita favorita con la Triestina, riportò a sorpresa un successo. Gli spettatori erano pochi: «piaceva/essere così pochi, intirizziti/uniti,/come ultimi uomini su un monte,/a guardare di là l’ultima gara.». Fu, questa, la partita che suggerì ad Umberto Saba le celebri immagini dei due portieri, che molti di noi impararono a scuola (e che parte della critica giudicò con disprezzo, ma che invece restano dei versi di grande suggestione e bellezza).
Cinque poesie sul gioco del calcio
da – Il canzoniere
I – Squadra paesana
Anch’io tra i molti vi saluto, rosso-
alabardati,
sputati
dalla terra natia, da tutto un popolo
amati.
Trepido seguo il vostro gioco.
Ignari
esprimete con quello antiche cose
meravigliose
sopra il verde tappeto, all’aria, ai chiari
soli d’inverno.
Le angoscie
che imbiancano i capelli all’improvviso,
sono da voi così lontane! La gloria
vi dà un sorriso
fugace: il meglio onde disponga. Abbracci
corrono tra di voi, gesti giulivi.
Giovani siete, per la madre vivi;
vi porta il vento a sua difesa. V’ama
anche per questo il poeta, dagli altri
diversamente – ugualmente commosso.
II – Tre momenti
Di corsa usciti a mezzo il campo, date
prima il saluto alle tribune.
Poi,quello che nasce poi,
che all’altra parte rivolgete, a quella
che più nera si accalca, non è cosa
da dirsi, non è cosa ch’abbia un nome.
Il portiere su e giù cammina come sentinella.
Il pericolo lontano è ancora.
Ma se in un nembo s’avvicina, oh allora
una giovane fiera si accovaccia
e all’erta spia.
Festa è nell’aria, festa in ogni via.
Se per poco, che importa?
Nessuna offesa varcava la porta,
s’incrociavano grida ch’eran razzi.
La vostra gloria, undici ragazzi,
come un fiume d’amore orna Trieste.
III – Tredicesima partita
Sui gradini un manipolo sparuto
si riscaldava di se stesso.
E quando
– smisurata raggiera – il sole spense
dietro una casa il suo barbaglio, il campo
schiarì il presentimento della notte.
Correvano sue e giù le maglie rosse,
le maglie bianche, in una luce d’una
strana iridata trasparenza. Il vento
deviava il pallone, la Fortuna
si rimetteva agli occhi la benda.
Piaceva
essere così pochi intirizziti
uniti,
come ultimi uomini su un monte,
a guardare di là l’ultima gara.
IV – Fanciulli allo stadio
Galletto
è alla voce il fanciullo; estrosi amori
con quella, e crucci, acutamente incide.
Ai confini del campo una bandiera
sventola solitaria su un muretto.
Su quello alzati, nei riposi, a gara
cari nomi lanciavano i fanciulli,
ad uno ad uno, come frecce. Vive
in me l’immagine lieta; a un ricordo
si sposa – a sera – dei miei giorni imberbi.
Odiosi di tanto eran superbi
passavano là sotto i calciatori.
Tutto vedevano, e non quegli acerbi.
V – Goal
Il portiere caduto alla difesa
ultima vana, contro terra cela
la faccia, a non vedere l’amara luce.
Il compagno in ginocchio che l’induce,
con parole e con la mano, a sollevarsi,
scopre pieni di lacrime i suoi occhi.
La folla – unita ebbrezza- par trabocchi
nel campo: intorno al vincitore stanno,
al suo collo si gettano i fratelli.
Pochi momenti come questi belli,
a quanti l’odio consuma e l’amore,
è dato, sotto il cielo, di vedere.
Presso la rete inviolata il portiere
– l’altro- è rimasto. Ma non la sua anima,
con la persona vi è rimasta sola.
La sua gioia si fa una capriola,
si fa baci che manda di lontano.
Della festa – egli dice – anch’io son parte.
Pier Paolo Pasolini amò tantissimo tanto il calcio, sport che aveva praticato sin dall’infanzia, considerato dall’Autore sanamente popolare, vissuto quasi come un rito collettivo da condividere con la propria comunità. In una sia intervista, Pasolini, bolognese di nascita, ma di profonda cultura friulana, celebrerà questo sport, in maniera originale, quasi dissacrante, innalzando a livelli quasi sacri, artistici:
«… Io sono tifoso del Bologna. Non tanto perché sono nato a Bologna quanto perché a Bologna, (…) sono ritornato a quattordici anni, e ho cominciato a giocare a pallone. (…) I pomeriggi che ho passato a giocare a pallone sui Prati di Caprara (giocavo anche sei-sette ore di seguito, ininterrottamente: ala destra, allora, e i miei amici, qualche anno dopo, mi avrebbero chiamato lo «Stukas»: ricordo dolce bieco) sono stati indubbiamente i più belli della mia vita. Mi viene quasi un nodo alla gola, se ci penso. Allora, il Bologna era il Bologna più potente della sua storia: quello di Biavati e Sansone, di Reguzzoni e Andreolo (il re del campo), di Marchesi, di Fedullo e Pagotto. Non ho mai visto niente di più bello degli scambi tra Biavati e Sansone (Reguzzoni è stato un po’ ripreso da Pascutti). Che domeniche allo stadio Comunale!»
(PIER PAOLO PASOLINI, Allo stadio la passione non cambia, dalla rubrica Il caos del settimanale Tempo, 4 gennaio 1969)
Questa tematica, la passione di Pier Paolo Pasolini per il calcio, verrà approfondita in una terza parte di questo articolo; una quarta parte vedrà invece come protagonisti alcuni autori che, nel campo della letteratura, dell’arte figurativa, del cinema e del teatro, in vari periodi ed in varie parti del mondo, hanno affrontato il tema del calcio.
Buone prossime letture!
BIBLIOGRAFIA:
Cinque poesie sul gioco del calcio
TRA LETTERATURA E CALCIO: Leopardi, Saba, Pasolini